Tra le pagine di Giovanni Verga
di Eleonora Bufalino
Sono giornate sospese a mezz’aria tra l’incombere dei nostri doveri e il desiderio di respirare una primavera che quest’anno è stata accolta da ciò che non avremmo mai immaginato e che, forse anche per questo, è arrivata silenziosa e incerta. Il mondo ci ha imposto di fermarci, plasmando le nostre abitudini allo scorrere non più frenetico del tempo. È il momento di riflettere. Lo sguardo ammira la quiete dei luoghi in cui vivo e riscopre il loro fascino immutato. I Monti Iblei circondano Vizzini, immersa in un clima mite e distesa su tre colli: il Castello, il Calvario e la Maddalena. Cittadina feudale in passato, è stata sempre dedita ad attività rurali, ma ha anche saputo sviluppare una fiorente economia con i paesi del circondario, grazie al commercio dei prodotti caseari e della concia delle pelli, che si svolgeva nell’antico borgo della Cunziria.
In questo paese dell’entroterra siculo, nacque il padre del Verismo italiano, Giovanni Verga. Sebbene il luogo della sua nascita rappresenti una questione dibattuta, l’ipotesi più accertata è quella secondo cui nell’estate del 1840 l’agiata famiglia Verga si trovava nella propria tenuta in contrada Tièbidi, a pochi chilometri dal centro abitato vizzinese, dove era solita trascorrere la villeggiatura; dopo qualche giorno, il 2 settembre 1840, l’evento venne però registrato all’anagrafe di Catania. Lo scrittore manterrà sempre un legame forte con la sua terra natìa, lasciandosene ispirare; fatti, personaggi ed emozioni scaturirono spesso da ciò che osservava tra strade, vicoli, cortili impolverati. La sua scrittura, intrisa di vicende legate alla gente del popolo, riesce a dar voce a quei “vinti” non ascoltati da nessuno, schiacciati da un destino già deciso e immutabile.
Scorrendo alcune pagine della letteratura verghiana si trovano descrizioni che ricordano la nostra attualità: lo scrittore, all’età di quattordici anni, visse, infatti, un periodo di isolamento nella villa di Tièbidi, in cui la famiglia si rifugiò per scappare dal colèra, che nel 1854 si abbatteva furioso su tutta la Sicilia. L’esperienza del giovane Verga fu alleggerita dalla spensieratezza dell’età, tra letture e passeggiate all’aperto, durante le quali s’invaghì di una giovane educanda del monastero di San Sebastiano di Vizzini. Il capolavoro “Storia di una Capinera” presenta, dunque, tratti auto biografici: la diciannovenne Maria, destinata a diventare monaca di clausura, s’innamora di Nino, durante il periodo di “libertà” dalle mura del convento, ai piedi dell’Etna, lontano dall’epidemia colerica che dilagava a Catania. Ma anche il “Mastro Don Gesualdo” richiama una situazione familiare: il protagonista si trasferisce a Mangalavite, “in un gran casamento annidato in fondo alla valletta, tra l’aria fresca e la libertà della campagna”, lontano dal colera del 1837. La serenità del paesaggio è interrotta dall’immagine “dei dirupi, delle grotte, delle capannucce nascoste nel folto dei fichidindia, popolati di povera gente scappata dal paese per timore del contagio”. Ed è come vedere un passato che ritorna, al quale assistiamo atterriti.
Eppure, anche nella narrazione di eventi non certo lieti si svela il genio letterario. La vita spesso crudele e piena di sofferenza diventa il terreno fertile della resilienza. I personaggi verghiani parlano di noi e del nostro modo di reagire di fronte alle circostanze avverse e così, persino nello sconforto, si può scorgere qualcosa di positivo. Forse tra le righe dello scrittore verista, in mezzo ai drammi e alla sicilianità esasperata, vi sono degli insegnamenti celati. Nella “miseria umana” c’è anche dell’altro: le passioni e gli entusiasmi che nonostante tutto ci fanno procedere, cadendo e ritentando. E da tali spunti bisognerebbe ripartire, con umiltà, rileggendo le parole del “villano di Vizzini”, come lui stesso si apostrofò in un’annotazione di “Novelle Rusticane” indirizzata all’amico Luigi Capuana.