Lucia Sardo, “Senza radici non si vola”
Articolo di Titti Metrico Foto di Studio C.D.A. Nardo
Aurora Lucia Sara: tre nomi che evocano la luce che traspare dall’animo di Lucia Sardo; un nome, un destino. Una donna forte, equilibrata, forse perché, come dice lei, è cresciuta con un nonno dell’800 che amava raccontarle storie autentiche e le ha assorbite come una spugna, portandosi dentro questo patrimonio di umanità.
Attrice a tutto tondo, per lei il teatro è come il cibo. L’ho conosciuta durante il suo spettacolo-racconto tratto dal film “I cento passi”, una storia drammatica che ricorda la figura di Felicia Impastato, madre di “Peppino”, una madre coraggio che ha lottato per la giustizia, contro la mafia, senza sottomettersi al dolore. Quando la definisco attrice antimafia, Lucia si schermisce, parla di amore, perché i giovani di oggi hanno bisogno di parlare di amore e di relazioni. La cosa che mi appassiona di più, mi dice, è la ricerca interiore, il viaggio più bello che si possa fare.
La sua vocazione è sensibilizzare le nuove generazioni attraverso uno spettacolo teatrale. Cos’è la mafia per Lucia?
«Abbiamo dato questo nome a una forma di cultura che è degenerata, la mafia sta alla Sicilia come il nazismo sta alla Germania. L’intenzione iniziale è buona; ad esempio se cerchiamo di aiutare un amico o vogliamo garantire per lui, diciamo: “guarda questo è amico mio, io te l’affido”, nella degenerazione diventa: “chistu è amicu miu, e tu te l’ha pigghiari” aggiungendo arroganza, presunzione e minaccia, perché la mafia è il piombo nero, dove non c’è speranza non c’è possibilità e felicità. Io non faccio un lavoro anti-mafia, faccio un lavoro anti-infelicità, perché la mafia è uno degli aspetti dell’infelicità, scegliere l’inferno invece del paradiso. La scelta è solo nostra, quando parlo con gli studenti, dico che la mafia è anche nei piccoli gesti, nell’arroganza».
Il “Teatro di Ventura” ha influito nel fare scelte coraggiose, che vanno fuori dagli schemi?
«Ho iniziato facendo teatro di ricerca interiore, estetica, spirituale. Una volta scoperta quella dimensione non puoi più tornare indietro ma faccio anche cose leggere, ad esempio un programma su Alice TV, dove io cucino, con il quale siamo stati premiati a Montecitorio».
Lei si definisce siciliana doc, ha mai pensato di lasciare quest’Isola?
«Si sono una siciliana, la Sicilia c’è l’ho nel sangue e la porto ovunque. Oggi preferisco essere definita una cittadina del mondo. Non potrei mai dire che un posto in particolare mi appartiene, mi appartengono tutti».
Cos’è la sicilianità?
«È la cultura siciliana, i colori, gli odori, i sapori siciliani. Scopri la sicilianità quando vai via dalla tua terra. Per me era normale che il mare profumasse, ma quando mi trovai in un mare diverso non sentii quel profumo. Il luogo dove siamo nati, la sua tradizione è la nostra linfa. Il grande psicologo Bert Hellingher dice: “senza radici non si vola”, possiamo volare solo se conosciamo bene le nostre radici».
Se dico Picciridda, cosa prova?
«Una gran gioia! Nel film la nostra bimba subisce una grande violenza, tutte le donne la subiscono in un modo o nell’altro. Questa picciridda c’è l’abbiamo tutte quante nel cuore, leggendo il libro di Catena Fiorello me ne sono subito innamorata. Il film è stato girato sull’Isola di Favignana e con tutta la troupe si è creata un’atmosfera magica, raccontare questa storia è diventata la nostra missione, abbiamo sentito l’esigenza di sostenere questa picciridda e questa nonna (il personaggio che io interpreto) che è stata a sua volta una picciridda. Una storia struggente con un lieto fine».
Progetti per il futuro?
«Uno è il lavoro bellissimo di Guillelm Clua, che si chiama la “Rondine”, ispirato alla strage di Orlando, dove quarantanove omosessuali furono uccisi, io interpreto una madre che ha perso suo figlio.
L’altro è “La nave delle spose”, la nave che negli anni ’60 portava le spose per procura. Il racconto di queste ragazze strappate dalle loro case, dai loro affetti, che si ritrovavano in viaggio per l’America o l’Australia per sposare uno sconosciuto, che spesso non corrispondeva neanche all’uomo nella foto».