Al di là dello schermo: il retroscena della didattica a distanza
di Irene Valerio
Il 4 marzo, dopo giorni di accesi dibattiti e di notizie contrastanti, viene ufficializzata la chiusura delle scuole a causa della preoccupante diffusione del Covid-19: di punto in bianco, docenti e studenti di tutta Italia sono costretti a rivoluzionare i loro metodi di lavoro, tra incertezze e criticità strumentali. Liliana Mucci, docente madrelingua di conversazione inglese presso il Liceo Classico e Linguistico “Bonaventura Secusio” di Caltagirone, ha illustrato le difficoltà del nuovo modo di fare scuola, mettendo in evidenza anche le opportunità che la reclusione forzata ha offerto.
Professoressa, cosa significa essere un insegnante ai tempi del Coronavirus?
«Essere un insegnante, oggi più che mai, significa innanzitutto accompagnare i ragazzi, non lasciarli soli durante questo delicato periodo. Non bisogna dimenticare, infatti, che ognuno di loro proviene da un contesto differente e sta affrontando difficoltà a volte anche frustranti, non solo a causa del lockdown: c’è chi ha genitori che combattono in prima linea negli ospedali; c’è chi deve fare i conti con le conseguenze economiche di questa crisi; c’è chi ha perso una persona cara senza poterle dire addio… Ecco perché gli insegnanti sono chiamati a essere vicini agli studenti, non solo tramite le nozioni, ma principalmente aiutandoli a non perdere la speranza».
Qual è il ricordo che serba degli ultimi giorni in classe, quando già si presentiva la chiusura delle scuole?
«C’era molta perplessità; soprattutto nessuno si aspettava di non tornare più tra i banchi. Negli ultimi giorni i ragazzi erano in fibrillazione per la sospensione delle lezioni, ma dopo qualche settimana sono stati loro stessi a rendersi conto che non era così bello come credevano. I maturandi sono coloro che hanno vissuto con più ansia questa situazione e noi docenti stiamo cercando di incoraggiarli e rasserenarli come meglio possiamo. Al di là della prova che dovranno affrontare, a loro pesa non poter vivere assieme l’ultimo anno: il percorso è stato bruscamente interrotto; manca il supporto reciproco, la condivisione delle paure, il confronto, la pizzata con i professori e le scampagnate di classe. Per gli insegnanti, invece, è stata una sfida: nell’incertezza ci hanno chiesto di prendere il timone e di gestire non solo il programma da mandare avanti, ma anche lo smarrimento degli alunni».
Quali sono state le difficoltà imposte dalla didattica a distanza?
«Innanzitutto la lontananza dai banchi: è mancato il contatto ravvicinato con i ragazzi, vederli alzare la mano durante le lezioni, il loro sorriso, lo sguardo intimorito quando sono impreparati e quello un po’ birichino quando hanno combinato qualche marachella… Adesso tutto è filtrato dallo schermo e ciò ha mutato completamente il ruolo dell’insegnante».
Ritiene che la scuola italiana, con i mezzi di cui dispone e con la formazione che offre agli insegnanti, fosse pronta ad affrontare una simile sfida?
«Nessuno era preparato per una sfida del genere, nemmeno noi insegnanti. Inizialmente siamo stati colti di sorpresa, perché, pur utilizzando il registro elettronico ogni giorno, non avevamo mai tenuto lezioni a distanza, perciò non sapevamo bene come muoverci e quale piattaforma usare tra le tante disponibili. Tra di noi, tuttavia, c’è stata grande collaborazione e ci siamo subito attivati per non bloccare gli ingranaggi, occupandoci, tra l’altro, di fornire computer e tablet agli studenti che non ne erano in possesso».
Come immagina il futuro della scuola?
«Stiamo ancora aspettando disposizioni dal Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, per cui c’è ancora tanta incertezza. Sappiamo che tutto sarà trasformato, ma noi insegnanti facciamo parte di una delle più dinamiche categorie e siamo abituati, con le continue riforme cui abbiamo dovuto adattarci, ad evolvere, perciò saremo pronti a reagire sollecitamente a qualsiasi ingiunzione, senza mai abbandonare i ragazzi».