La magia della pellicola di Paolo Barone

La magia della pellicola di Paolo Barone

Articolo di Angelo Barone,  Foto di Paolo Barone

Da tempo desidero realizzare una rubrica dedicata ai paesaggi e alla gente di Sicilia. Mi interessa esplorare la sensibilità e la passione di quanti con la fotografia, attraverso uno scatto, sanno cogliere e trasferire emozioni. Per avviare questo progetto, il mio pensiero va subito a Paolo Barone e alla sua arte fotografica esposta in tante sue mostre personali in Italia e in giro per il mondo in città come Pechino, Montevideo, San Paolo, Rio de Janeiro, Brasilia, Porto Alegre, Curitiba, Colonia, Londra, Lima e Santiago del Cile, per citarne alcune.  

Paolo Barone, classe 1951, catanese che da anni vive la sua vita tra il capoluogo etneo e Bologna, scopre la magia della pellicola oltre trent’anni fa. Innamorato della sua terra, ne divulga le bellezze paesaggistiche e tutto il suo patrimonio gastronomico.

A giugno dello scorso anno incontro Paolo a Menfi, a casa Planeta, in occasione della presentazione della pubblicazione “Identità e ricchezza del vigneto in Sicilia”. Lui, con la sua macchina fotografica pronto a cogliere la bellezza dei luoghi ed io a prendere appunti per raccontare di questa Sicilia e della sua gente. Ci diamo appuntamento per la mattina successiva, mi deve una colazione, al Baglio San Vincenzo. Il posto è bello, rilassante, con un’incantevole vista su Menfi, i suoi vigneti e il suo mare. La colazione, servita da una gentile signora, mi fa cominciare bene la giornata e la chiacchierata con Paolo che si definisce “un curioso impenitente che segue i rumori, gli odori e i colori della Sicilia”. I ricordi vanno ai famosi truck incontrati e fotografati negli USA, in occasione della proficua esperienza fatta insieme, nel 2002, con “Sweet Peal” per promuovere le arance rosse nel mercato americano; del presente mi fa vedere le foto della transumanza di Alfio Antico, ma quello che mi colpisce di più è la passione con la quale mi racconta del suo amore per l’Etna e della sua esperienza vissuta e fotografata durante un’eruzione del Vulcano.

In quel momento ho capito che il primo servizio da fare è l’Etna di Paolo Barone: “Etna, cuore pulsante della Sicilia dove tutti i colori ancestrali vengono irradiati dalla luce più pura, distesa di bianco intenso punteggiata dalle fantasmagoriche e suggestive danze pirotecniche nelle eruzioni”. Paolo ricorda ancora con emozione i rumori e il suono delle colate, “la sensazione di camminare sui vetri e romperli con il calpestio, la forza della lava in fusione e poi sentire, come i battiti di un cuore gigantesco, il suono del boato dal profondo delle viscere del Vulcano”. Mi sovrasta la sensazione d’impotenza di fronte a questa forza e poi “tutto rinasce e la montagna si colora di nuovo della sua straordinaria vegetazione”. Grazie Paolo per le emozioni che le tue immagini ci trasmettono.  

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L’Etna e il mito della nascita della Sicilia

a cura di Alessia Giaquinta

Maestoso, affascinante, terribile e incantevole al tempo stesso. Ecco l’Etna, il grande vulcano siciliano, protagonista di miti e leggende fenicie, arabe, greche e nordiche.

Le civiltà di ogni tempo, infatti, hanno voluto affidare alla mitologia il compito di spiegare gli straordinari fenomeni naturali di “Mungibeddu”, nome siciliano del vulcano.

È interessante, a questo proposito, raccontarvi come i greci giustificavano le eruzioni dell’Etna attraverso il mito del gigante Encelado. Si narra che, un tempo, ci fu una lotta per la supremazia del mondo in cui erano coinvolti le divinità e i giganti. Questa lotta, narrata nella “Gigantomachia”, finì con la sconfitta dei giganti che, di conseguenza, furono confinati nel sottosuolo.

Encelado, però, non si diede per vinto. Egli era ancora più alto dei fratelli, aveva una coda di serpente e una lunga barba che emetteva scintille di fuoco ogni qual volta si adirava. Tutti lo temevano e, dunque, nessuno poté contraddirlo quando espresse la volontà di sfidare ancora una volta gli dèi.

La dea Atena (o Zeus in altre varianti del mito) scagliò Nike, dea della vittoria (o un fulmine nella variante che vuole Zeus protagonista del gesto) contro l’arrogante gigante che, colpito nel petto, cadde nel Mar Mediterraneo dove venne sepolto dal cumulo di monti e terra che egli stesso aveva predisposto per arrivare sino alla dimora degli dèi.

Questa terra divenne la Sicilia. L’alluce destro di Encelado, secondo il mito, sta sotto il Monte Erice, la gamba destra verso Palermo e la sinistra verso Mazara, le braccia distese: una lungo Messina e l’altra verso Siracusa.

Il corpo e la testa, invece, giacciono sotto l’Etna che erutta ogni qual volta il gigante grida la sua rabbia.

L’Etna era nella mitologia anche sede del dio Efesto. Qui egli forgiava le armi per gli eroi, le frecce per Apollo e ogni metallo che servisse agli dèi.

Qualche altro mito la identifica con l’Ade, il regno dei morti, o ancora come luogo di tesori incantati, le cosiddette “trovature”. Ma questa, è un’altra storia…

 

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Pet Therapy

a cura di Maria Concetta Manticello

Oggi, dopo aver faticato ad imporsi, la “Pet Therapy” è riconosciuta e ampiamente praticata.                   Un successo che ha reso l’Italia, da fanalino di coda nella sperimentazione di nuove terapie, modello a cui fanno riferimento i paesi più avanzati. Dalle origini ad oggi la storia dell’evoluzione dell’uomo è sempre andata di pari passo a quella degli animali. Nelle culture antiche a molti di essi venivano attribuite capacità terapeutiche in quanto apportavano benefici alla salute dell’uomo. Nell’età cristiana, i cani, per esempio, venivano considerati guaritori di ferite e piaghe.

Il primo vero utilizzo scientifico di animali a scopo terapeutico risale al 1792, grazie allo psicologo inglese William Tuke, che per la prima volta sperimenta una cura, con l’aiuto di animali da cortile, su pazienti affetti da disturbi psichiatrici.

Il termine “Pet Therapy” viene usato per la prima volta nel 1964 dallo psichiatra infantile Boris M. Levinson, il quale notò come la presenza del suo cane alle sedute con bambini autistici si rivelasse proficua nel facilitare la comunicazione tra i piccoli pazienti e il medico. Infine, nel febbraio del 2003 un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri introduce la “Pet Therapy” negli ospedali e nelle strutture residenziali e così, a Firenze, il 4 maggio 2016 i cani entrano per la prima volta all’ospedale Careggi nel reparto di rianimazione d’emergenza, per aiutare i pazienti ad uscire dalla terapia intensiva. Dunque, anche in un reparto “delicato”, i nostri amici a quattro zampe, opportunamente addestrati, possono avere un importante ruolo terapeutico.

La “Pet Therapy” può essere praticata con vari animali, a seconda della patologia che si vuole affrontare. Ma tra tutti spicca senza dubbio il cane che frequentemente viene chiamato a svolgere il ruolo di compagno di lavoro come co-terapeuta negli interventi assistiti con animali. La presenza di un animale migliora, dal punto di vista psicologico, la vita dell’individuo, diminuendo solitudine e depressione, dando impulso alla cura di sè stessi e diventando una fonte di attività quotidiane significative.

È dimostrato che durante le sedute si abbassa l’ansia, si riduce la pressione sanguigna, la glicemia e il battito cardiaco. Patologie come l’autismo, l’anoressia, i disturbi psichici, le disabilità post-ictus o post-traumatiche possono trovare notevoli vantaggi dall’utilizzo degli animali in accostamento alle terapie tradizionali. È emozionante pensare all’effetto che queste splendide creature hanno non solo sulle persone sane ma soprattutto sulle persone portatrici di un qualche disagio.

“Fido” dunque è veramente un medico speciale, non indossa il camice ma la pelliccia, e ciò conferma più che mai il vecchio e saggio detto che lo vuole migliore amico dell’uomo.

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Tony Canto, il suono “Moltiplicato”

a cura di Paperboatsongs,  Foto di Charlie Fazio

Cantautore, autore, compositore, arrangiatore, chitarrista e produttore. L’esperienza poliedrica di un siciliano che è già maestro musicale della nostra terra. Tony Canto è un artista “Moltiplicato”.

Ciao Tony e benvenuto tra le pagine della nostra rubrica che si consolida sempre di più grazie alla partecipazione di artisti veri e importanti come te. Partirei proprio dal tuo ultimo album chiedendoti, forse banalmente, perché il titolo “Moltiplicato”?

«“Moltiplicato” è l’album che avrei voluto fare da sempre ed è soprattutto l’album che vorrei fosse ascoltato dai miei figli quando non ci sarò più, perché è ciò che realmente sono in musica, come espressione, sintesi delle mie esperienze e anche come testi in cui loro sono molto presenti. Con “Moltiplicato” ho fatto dell’anacronismo la mia bandiera, perché lavorando nel campo a 360 gradi, come hai detto tu, ne vedo tante di mode passeggere che sono chimere del momento e non avendo velleità da classifica o da radio ho preferito essere me stesso completamente.

Questo declino del mondo per me è una tabula rasa, è un volano per essere carbonaro e fare lo stesso le cose come le sento. All’estero sta avendo parecchi riscontri ma è prematuro parlarne qui, un po’ per scaramanzia.

Il titolo è dovuto alla track title e vuol rappresentare il fatto che in questo momento della mia vita non mi identifico in nessuno e non ho punti di vista, ripudio le correnti di pensiero ed io stesso sono acqua nel mare, potrei essere uno, nessuno, centomila (l’hanno già detto?). Sono musicista, padre, marito, cuoco, uomo, ma forse sarò un’altra cosa domani e forse sono già stato altro in vite precedenti. L’esistenza è una delle possibilità. Il mio e il nostro destino è comunque straordinario».

 

Cinema e musica, due mondi che sappiamo s’incrociano spesso nel tuo percorso artistico. Avendo collaborato alla creazione e scritto alcune colonne sonore, racconteresti ai nostri lettori come hai vissuto fino ad oggi questo binomio e se questa esperienza ti ha arricchito come artista?

«È importantissimo per un musicista praticare il teatro e il cinema musicalmente. Il linguaggio si arricchisce e si capisce che l’enfasi è alla base della musica. Una singola nota suonata in modi diversi evoca qualcosa, è la magia della musica. Questa cosa mi ha molto cambiato».

 

Come riesci a separarti dai tuoi progetti musicali personali per calarti con lucidità nelle vesti di produttore per altri artisti?

«Questa è la cosa più facile e che mi arricchisce. Quando leggi un libro assorbi l’esperienza della vita di chi lo ha scritto ma non sei lui. Io agisco sulle vite, riesco a immedesimarmi nelle vite degli artisti che produco apportando il mio vissuto ovviamente».

 

Hai qualche anticipazione per il prossimo futuro da rivelarci?

«Sì, alcune. A marzo uscirà “Ci vuole un fisico”, un film commedia prodotto da Rai Cinema di cui ho curato l’intera colonna sonora che già si trova su Apple Music. Per l’interpretazione di un brano del film da me composto ho chiamato “Le Sorelle Marinetti”, un trio molto famoso che sposa i suoni anni ‘40. Poi sto collaborando con almeno cinque artisti per co-scrittura e produzione, un paio sono big ma non posso rivelare nulla. Inoltre, ho delle belle novità, come anticipavo, per l’estero per quanto mi riguarda».

 

La nostra rubrica dedica solitamente l’ultima domanda ai giovani lettori e artisti che vogliono intraprendere una carriera nel mondo della musica. Hai qualche consiglio da dare, vista la tua grande esperienza?

«L’unico consiglio che mi sento di dare è di essere sempre professionali, anche se intorno tutto sembra fatiscente, nel senso di essere preparati sulle cose che si fanno e di essere puntuali che è un segno di grande rispetto per se stessi e gli altri. Suonare allo stesso modo in un pub con tre persone e in un teatro con tremila».

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Tra Carnevale e Pasqua, le specialità piemontesi

Articolo e Foto di Stefania Minati

Dopo il gelo di gennaio che attanaglia i nostri monti e le feste natalizie, arriva una nuova ondata di “gambe sotto la tavola” all’insegna di specialità tipiche della cucina piemontese. Per ritrovare i piatti della tradizione e rispolverare la memoria, ho chiesto aiuto a Clara Berta, titolare dell’omonimo ristorante e panetteria di Pertusio, cittadina in provincia di Torino. Figlia d’arte, ha saputo rivisitare con grande maestria la tradizione culinaria piemontese, imparata dai genitori. Mi racconta che tra la fine di gennaio e per tutto il mese di febbraio, periodo dedicato al Carnevale, troviamo per lo più dei dolci tipici, quali le bugie e i canestrelli. Le prime non sono frottole, bensì composte di uova, farina e lievito, fatte friggere e spolverate di zucchero a velo. Oggi si possono trovare anche nella variante ripiena di marmellata o cioccolata. I canestrelli sono invece dei biscotti a cialda, sottili e molto friabili, cotti su piastra a pinza arroventata e sul fuoco vivo. Un dolce questo che veniva e viene fatto per lo più in casa con piastre spesso personalizzate con gli stemmi delle famiglie più antiche o la classica forma a grata.

Per i pranzi pasquali invece, il menù tradizionale prevedeva storicamente un pranzo con uova ripiene come antipasti, l’agnolotto del Plin, ricetta che viene preparata anche a Natale, l’agnello con patate o carciofi e i dolci. Ci sono moltissime varianti oggi e tantissimi piatti vengono mantenuti sulle tavole ormai per tutto il periodo invernale.

I tipici peperoni in “bagna cauda”, il gran fritto misto dolce e salato, e molta, moltissima carne. Il bollito misto della zona di Carrù nel cuneese, il coniglio grigio di Carmagnola, il “tapulone” tipico del Verbano, le lumache di Cherasco e la gallina di Saluzzo, per citare solo alcuni esempi.

La tipica pecora piemontese è la Sambucana, comparsa nell’alta Val di Stura intorno al XVIII secolo, preziosa sia per la lana che per la carne. L’agnello viene utilizzato in un’età compresa tra il quarantacinquesimo e sessantesimo giorno, raggiunto un peso minimo di diciotto chilogrammi. Oggi anche l’agnello viene rivisitato in vari modi, come ad esempio cotto a tondino con ripieno di patè e verdurine di contorno, restando comunque immancabile sulle tavole pasquali in Piemonte come in tutto il resto d’Italia.

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Catania-Comiso Sistema Aeroportuale del Sud-Est: sinergie per lo sviluppo

Articolo di Angelo Barone, Foto di Cristian e Alberto Carobene

Il 2018 sarà l’anno del cibo italiano e l’anno europeo del patrimonio culturale. Per la Sicilia che vanta una grande ricchezza sia enogastronomica, sia artistico-culturale questi eventi possono essere occasioni di crescita per l’export agro-alimentare e il settore turistico. Per raggiungere risultati positivi tutto il nostro sistema istituzionale, produttivo, culturale e turistico deve lavorare in sinergia e fare rete.

In quest’ottica, il sistema aeroportuale del Sud-Est, con gli aeroporti di Catania e Comiso, svolge, per la Sicilia centro-orientale, un ruolo strategico importante per la mobilità delle comunità e lo sviluppo del territorio.

Definiti gli assetti istituzionali della Regione e della Camera di Commercio del Sud-Est, occorre rafforzare la sinergia tra i due aeroporti e far crescer ancora di più i numeri positivi, in termini di passeggeri, raggiunti nell’anno precedente.

Il 2017 è stato un anno record per l’Aeroporto di Fontanarossa che ha superato i nove milioni di passeggeri con un trend di crescita annuale costante del 16 per cento, un valore che vale il secondo posto, dopo la scalo di Napoli, in termini di crescita a livello nazionale.

Dal sito della SAC apprendiamo d’investimenti per migliorare la qualità dei servizi ai passeggeri e per essere più attrattivi con le compagnie che vogliono investire a Catania. Continueranno anche gli investimenti di co-marketing per le rotte internazionali.

Anche Comiso vuole essere partecipe della crescita. Lo scorso novembre è stata firmata, infatti, la convezione tra la SOACO, società che gestisce l’Aeroporto “Pio La Torre” e gli undici Comuni di Ragusa, Modica, Scicli, Ispida, Vittoria, Santa Croce Camerina, Acate, Monterosso Almo, Giarratana, Chiaramonte Gulfi e Palazzolo Acreide, per incrementare i flussi turistici nello scalo con un investimento di 4 milioni 900 mila euro (art.1 Legge Regionale 24/2016) ai quali si aggiungeranno il co-finanziamento di un milione 600 mila euro (fondi ex Insicem) del Libero Consorzio Comunale di Ragusa e 380 mila euro della Camera di Commercio Sud-Est. L’importo complessivo di circa 7 milioni di euro sarà destinato a un bando rivolto alle compagnie aree interessate a promuovere programmi di co-marketing territoriale.

Nei prossimi numeri approfondiremo, intervistando i protagonisti, come il sistema aeroportuale del Sud-Est può fare decollare lo sviluppo del territorio.

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Piacìri, l’omaggio su carta alla Sicilia Patrimonio dell’UNESCO

La Redazione

La Sicilia, luogo d’incontro di civiltà millenarie, è la destinazione scelta per inaugurare il progetto editoriale “In Viaggio con Bianca”, una collana dedicata a personaggi, itinerari e luoghi straordinari, “Piacìri”, il libro di viaggio di Emanuele Cocchiaro Editore che invita a scoprire luoghi più e meno noti della Sicilia attraverso le ricette di Roberto Toro, Executive Chef del Belmond Grand Hotel Timeo. Nato con la volontà di valorizzare la Dieta Mediterranea e l’Opera dei Pupi, dopo aver fatto bella mostra di sé lo scorso 18 novembre alla cena inaugurale della “Settimana della Cucina Italiana nel mondo” presso l’Ambasciata Italiana a Washington, il volume è stato presentato dalla giornalista Laura Pintus in una sala conferenze del Palazzo della Cultura a Catania gremita di pubblico e giornalisti enogastronomici. Piacìri, oltre a rappresentare un modo per intraprendere un viaggio tra i colori, i profumi e i sapori della nostra Isola, insieme allo chef Roberto Toro, si propone come un tramite culturale importante nel panorama siciliano poiché l’esaltazione della Dieta Mediterranea si unisce al bisogno di tramandare un altro patrimonio siciliano: parte dei proventi della vendita di Piacìri sarà destinata all’apertura a Catania del Teatro dell’Opera dei Pupi, contribuendo a salvaguardare la celebre tradizione popolare che rischia di scomparire.

A breve, dopo la tappa inaugurale etnea, Piacìri sarà presentato in altre città siciliane.

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Addio a Italia Chiesa Napoli, paladina della tradizione siciliana

Articolo di Erika Magistro

“Un teatro era il paese, un proscenio di pietre rosa, una festa di mirabilia. E come odorava di gelsomino sul far della sera. Non finirei mai di parlarne, di ritorecchiarmi in un così tenero miraggio di lontananze…”.

È con le parole di Gesualdo Bufalino che vogliamo ricordare Italia Chiesa Napoli, madre di tutti i pupi catanesi e ultima esponente della seconda generazione della marionettistica dei fratelli Napoli che, dal 1921, donano voce e anima alle epiche sfide di Orlando. Parlatrice ineguagliabile, voce della “Signora Tigre” di Montalbano e amabilissima “Alda la bella”, Italia Chiesa Napoli ha sempre portato avanti, con tenacia e passione, la lotta per la realizzazione di un sogno: mantenere in vita la tradizione, senza la quale saremmo solo popoli senza un nome.

Donna forte, madre amabile e moglie devota. Aveva sposato Natale Napoli, figlio di Don Gaetano, un puparo che amava a tal punto i suoi pupi da non decretarne mai la scomparsa. Venne poi la guerra e Don Gaetano cedette il passo ai suoi figli maschi (uno di loro, Saro, scomparso in giovane età) che, con talento e costanza, esportarono l’Opera dei Pupi nel mondo fino alla conquista del premio “Erasmus” ricevuto dai reali d’Olanda e destinato a “persone e istituzioni che per la loro attività hanno arricchito la cultura europea”. Italia Chiesa Napoli, attrice dalle invidiabili virtù organizzative e dalla grande audacia, era un’eroina di altri tempi e dalla personalità magnetica, capace di tenere in piedi una famiglia numerosa. Volle che tutti i figli avessero percorsi scolastici regolari ed ebbe un ruolo decisivo nella correzione dei copioni calcando le scene dei più grandi teatri: venne scelta dalla stessa Lina Wertmüller, per recitare la parte di una nobildonna siciliana, zia di Delia Scala. Fu la sola, di tutta la compagnia, a partecipare per due volte consecutive alla commedia musicale “Rinaldo in campo” di Pietro Garinei e Sandro Giovannini. La prima nel 1961 e la seconda nel 1987.

Con Italia Chiesa Napoli, che ci ha lasciati lo scorso sabato – 13 gennaio 2018 all’età di 93 anni – se ne va un altro pezzo della storia catanese ma la sua traccia nella tradizione culturale siciliana dell’Opera dei Pupi rimarrà viva nella memoria di chi ne ha amato, stimato e rispettato la dignità umana e artistica. Per sempre.

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Cantunera, l’ingrediente segreto di Alessandro Pace

Articolo di Alessandra Alderisi, Foto di Peppe Alessandrello

Cosa si nasconde dietro ogni ricetta che incarna l’eccellenza di un territorio? La ricerca costante delle proprie radici, la passione per la propria professione, la selezione di materie prime di alta qualità, l’amore per la tradizione culinaria della propria terra e senza dubbio l’elemento che più di tutti fa la differenza: l’ingrediente segreto.

Voi dove custodireste il vostro? Alessandro Pace di “Cantunera” l’ha “nascosto” in una boccia vuota che ha portato con sé a “Le Purgatoire” di Parigi per la “Festa della Cucina Siciliana” organizzata da Alessandra Pierini. Sì, una boccia vuota perché la materialità è superflua quando il contenuto è un ideale. Una boccia trasparente perché cristallino e libero da ogni velatura è il fine che si palesa chiaramente dietro una cucina sincera e sentita. Ve lo possiamo svelare senza privare di magia e bontà le sue ricette che hanno il sapore dell’autenticità siciliana, dietro le arancine, le “mitilugghie” e i cannoli di Alessandro, c’è quello che non dovrebbe mancare mai quando si vuole restituire dignità alle tipicità della nostra Isola: il rispetto. Per le materie prime, per se stessi, per il cliente. Quel rispetto che va oltre le apparenze puntando alla sostanza. Quel rispetto che lo ha portato dal suo laboratorio di Comiso fino al numero 13 di Boulevard de Ménilmontant di Parigi

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Un siciliano a Parigi. Raccontaci la tua esperienza.

«A Parigi ho portato la semplicità, ho raccontato me stesso e la Sicilia attraverso le radici enogastronomiche del nostro territorio. Da ambasciatore del gusto siciliano ho fatto, quindi, quello che so fare meglio: ho mostrato a tutti i partecipanti come si fa la mia arancina. In teoria il corso doveva essere aperto alle prime 10 persone che avessero indossato il grembiule, in realtà quella mattina eravamo in 100. E stesso successo nel pomeriggio per la preparazione dei cannoli e dei biscotti alla mandorla, al carrubo, al pistacchio, fatti con il mio TPT: sono andati letteralmente a ruba».

Porti sempre con te il TPT, ma di cosa si tratta?

«Il “Tanto Per Tanto” è il mio preparato base, una “farina” composta in parti uguali da zucchero e mandorla. Lo puoi usare per fare a casa il latte, la granita o i biscotti di mandorla, ma anche per le torte, dipende se lo misceli con lo sciroppo di zucchero, con l’albume o con il tuorlo».

Cos’è l’Aroma Cantunera?

«Sai cosa c’è nel mio cannolo? Solo vino rosso, burro, farina e Marsala invecchiato vent’anni. L’Aroma Cantunera è questo, è un aroma naturale, fatto di ingredienti genuini, senza aggiunta di grassi vegetali idrogenati ed emulsionanti, elementi che ho categoricamente bandito dalla mia cucina».

Se ne è parlato tanto anche scomodando l’Accademia della Crusca. Alessandro ma la tua arancina è maschio o è femmina?

«Ride (n.d.r.). Mangiatela e ditemelo voi. Per me l’importante è che sia buona».

 

E cosa ci vuole secondo te per renderla buona?

«Quella dell’arancina è una ricetta antica che nasce dall’amore, dal prendersi cura dei propri cari. Quando si lavorava nei campi, soprattutto d’inverno, le mogli avevano la necessità di dare della carne ai propri mariti e quindi la racchiudevano in una palla di riso per far sì che si conservasse al meglio fino all’ora di pranzo. È solo andando alla ricerca delle nostre origini che possiamo custodire l’essenza della storia della nostra identità. È questo che ci vuole: l’amore, la cura e il rispetto».

Il sogno di Alessandro è che l’arancina possa un giorno diventare Patrimonio dell’Umanità dell’ Unesco, al pari della pizza napoletana.

Nel frattempo però vi consigliamo di provare tutte le sue specialità e vi garantiamo che ce n’è per tutti i gusti. Che siate amanti del dolce o del salato poco importa se andrete a trovarlo a Comiso, in Via G. Di Vita 17, o a Ragusa Ibla, in Largo San Domenico 18, l’importante è che siate amanti delle cose buone, autentiche e genuine.

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Il Mandorlo in fiore…ed è già primavera!

Articolo di Alessia Giaquinta

 

Il primo segno della natura che si prepara all’arrivo della primavera è indubbiamente la fioritura del mandorlo. Già durante il mese di febbraio, infatti, nella nostra terra si possono notare piccoli e delicati fiori bianchi o rosati sui rami dei maestosi mandorli, alberi che possono raggiungere i 10-12 metri di altezza e circa 2 metri di circonferenza.

Il mandorlo è una pianta originaria della Persia, o comunque delle zone asiatiche, ed è giunto in Sicilia nel VI secolo a.C. grazie ai Fenici.

Oggi, indubbiamente, rappresenta una delle piante-simbolo del territorio siciliano poiché caratterizza non solo la bellezza paesaggistica ma anche lo spirito degli isolani.

Il mandorlo, infatti, fiorisce in condizioni poco favorevoli (basti pensare che questo avviene durante la stagione invernale), sopravvive alle basse temperature e, per vivere, accetta ogni tipo di terreno, tranne quello umido o argilloso. L’indole dei siciliani pare provenire dal mandorlo: siamo, infatti, pronti a fiorire e reinventarci sempre con una forza tale da non considerare le barriere esterne. Tenaci eppure delicati, proprio come quei meravigliosi boccioli che adornano il mandorlo.

La fioritura dura circa due settimane e, simbolicamente, questa indica la rinascita e la speranza.

Vi è, infatti, una leggenda, narrata da Ovidio nelle “Metamorfosi”, che racconta la nascita del mandorlo e ne giustifica la fioritura. Si tratta dell’amore tra la principessa greca Fillide e Acamante, figlio di Teseo e valoroso guerriero, che fu costretto a partire per combattere nella guerra di Troia.

Fillide trascorreva i giorni in riva al mare, nella speranza di vedere tornare il suo amato e, dopo dieci anni di attesa, iniziò a consumarsi sempre più finché, credendo che Acamante fosse morto in guerra, morì di crepacuore.

La dea Atena provò pietà per il triste epilogo di questa storia d’amore e decise di trasformare il corpo di Fillide in un mandorlo, quasi a voler dare forma visibile a quella speranza tanto a lungo nutrita nel cuore della principessa.

Acamante, però, non era morto. Al suo ritorno egli seppe che la sua amata viveva in un mandorlo. Il giovane guerriero, sconfortato e in preda alla disperazione, accarezzò e abbracciò il tronco dell’albero che, per ricambiare, improvvisamente si coprì di candidi fiori profumati invece delle foglie.

Quest’abbraccio si ripete ogni anno durante il periodo che va dalla seconda decade di gennaio alla fine di marzo, a seconda dell’altitudine e latitudine del posto.

Ad Agrigento, ormai da 73 edizioni, si festeggia il “Mandorlo in fiore” con una serie di eventi e tradizioni che coinvolgono culture di tutto il mondo. Per l’occasione, infatti, si organizza il Festival Internazionale del Folklore in cui si promuove il pacifico incontro tra varie etnie che, presso il Tempio della Concordia, accendono simbolicamente il Tripode dell’Amicizia.

La Festa del “Mandorlo in fiore”, però, nasce essenzialmente per esaltare questa pianta i cui semi, le mandorle appunto, sono commestibili e sono alla base della Dieta Mediterranea, oltre ad essere protagonisti di numerosi piatti tipici della tradizione siciliana.

Quest’anno il “Mandorlo in fiore” si terrà dal 3 all’11 Marzo nella suggestiva Valle dei Templi, dove ormai da secoli si ripete il miracolo della precoce fioritura di quest’albero che appartiene alla famiglia delle Rosacee e si caratterizza per la sua longevità, oltre che bellezza.

“Parlami di Dio, dissi al mandorlo. E il mandorlo fiorì” scrive Nikos Kazantzakis. Un paragone sublime riutilizzato da Papa Francesco durante un’intervista condotta dal gesuita messinese, Antonio Spadaro, “Dio è un po’ come il fiore del mandorlo della tua Sicilia, Antonio, che fiorisce sempre per prima”.

E anche se è ancora inverno basta assistere alla fioritura dei mandorli per credere che in quel meraviglioso risveglio, bacio tra Fillide e Acamante, simbolo di Dio, sia già arrivata la primavera.