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Chiedetelo al re…Favola per pigri e piagnoni

I RACCONTI DI BIANCA a cura di Alessia Giaquinta

“C’era na vota…”. Beh, è proprio il caso di dirlo. La favola che vi racconto, tramandata anche negli scritti dello storico e studioso Giuseppe Pitrè, parla di laboriosità, meritocrazia e generosità, presentandoci un re tanto saggio quanto giusto, insomma una vera rarità.

Il sovrano di cui parliamo, regnava (tanto tempo fa…) a Palermo e aveva la fama di essere così buono e generoso che bastava chiedere per avere.
Fu così che, un bel giorno, un uomo senza arte né parte, si recò da lui per chiedergli l’elemosina. Indossava vesti discrete, aveva un portamento elegante e le mani bianchissime. Non aveva mai lavorato in vita sua perché – si lagnava – «nu sàcciu fari nudda sorti di fatica». Era, in altre parole, un fannullone che si crogiolava nella sua miseria e che altro non sapeva fare se non lamentarsi.
Il re, dopo averlo osservato, gli chiese: «Amicu, quantu aviti cumpratu sti càusi?»
«Maistà, cincu scuti», rispose l’uomo.
Il re continuò a chiedere: «E stu cileccu?», «Maistà, du’ scuti» disse prontamente l’uomo. E così via, per tutto l’abbigliamento.

Il re, però, contrariamente alle sue aspettative, non diede lui nessuna elemosina, anzi gli disse di andarsene e, magari, ritornare in séguito. Uscito dal castello, l’uomo iniziò a parlar male del re, a dire che era un sovrano senza cuore e senza pietà, e continuò così a lamentarsi per numerosi giorni.

Un giorno, invece, dal re si presentò un contadino con umili vesti, gli occhi affaticati e le mani nere e callose. Il re gli chiese cosa desiderasse. Il contadino rispose, senza esitare: «Na scecca».
«Na scecca? E perché?», domandò il sovrano.
Il pover’uomo, allora, raccontò che aveva sette figli e che non riusciva più a sfamarli da quando l’asino che possedeva era morto. La bestiola, infatti, gli era utile per portare e vendere la frutta e la verdura in città.

Il re non tardò ad accontentare il contadino. Anzi, gli diede cento onze dicendo: «cu quarant’unzi ti accatti ‘na mula e lu riestu ti viesti li figli e la muglieri».
Quel denaro non fu mai smarrito, tutt’altro: si centuplicò nel tempo, divenendo una vera fortuna. Il contadino e la sua famiglia vissero “felici e cuntenti”…

E a noi? Beh, per chi non vuol capire, “nenti”!

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I bermuda Numa pronti per l’estate

Selected by Numa a cura di Emanuele Cilia   Foto di Giuseppe Bornò

IG: @numaselection     NUMASELECTION.IT

È finalmente giunta la stagione estiva, quella degli aperitivi all’aperto, nelle località marittime, magari innanzi ad un bel tramonto. E allora è sempre utile avere nell’armadio il capo giusto da indossare in queste occasioni in cui, si sa, lo stile non è per nulla secondario.

Ebbene, Numa vi propone dei bermuda a vita alta davvero versatili: ideali sia per uno stile elegante, se accompagnati da camicia in cotone – o in lino – con mocassini; sia per uno stile più casual e per gli amanti della scarpa aperta, perché possono essere indossati con polo e sandali.
E perché no, anche con le scarpe da barca, per essere chic durante un aperitivo raffinato a bordo!

Realizzati, a vita alta e con doppie pinces, sia in fresco-lana oppure in lino, i bermuda Numa nei colori richiamano i tramonti della nostra Terra… Assolutamente unici e imperdibili!

 

 

 

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La passata di pomodoro

Le ricette di Nonna Gina a cura di redazione  Graphic by Mauro Polizzi

Preparare la passata di pomodoro, o fari i buttigghi, in Sicilia è un rito che va ben oltre la preparazione delle conserve. Si tratta di una tradizione che spesso riunisce intere famiglie impiegando giornate estive trascorse in campagna, ognuno con le proprie mansioni, tutti coinvolti nella preparazione della salsa. Alcuni dei ricordi più belli d’infanzia li ricollego a questo: mia nonna che impartiva ordini a tutti da brava capo famiglia, il succo di pomodoro che schizzava quando venivano tagliati, le colonne di cassette straboccanti di pomodori, le nostre mamme a riprenderci quando correvamo vicino ai pentoloni bollenti… Proprio così, perché quando si prepara la salsa in Sicilia è sempre una festa. Ci si stanca, è vero, perché lo si fa in grande coinvolgendo tutti e imbottigliando una quantità tale che possa bastare per l’intero anno, ma la fatica viene sempre ripagata dal piacere dello stare insieme.

Si inizia eliminando i piccioli e spaccando a metà i pomodori, rimuovendo l’eventuale parte verde interna e i semini. Se i pomodori sono troppo acquosi è bene che stiano una notte a gocciolare. A questo punto inserite i pomodori in un pentolone, ‘a caurara, insieme ad abbondante basilico e sale, in base ai propri gusti, e fateli cuocere finché non inizieranno ad ammollirsi. Terminata questa operazione bisogna passare i pomodori usando un passaverdura e raccogliendo il sugo estratto dentro una pentola. Qualora vi rendiate conto che il sugo risulti troppo acquoso è opportuno filtrarlo con un colino a maglie strette.

Una volta conclusa questa fase si può procedere all’imbottigliamento. Dopo aver lavato e sterilizzato le bottiglie, rigorosamente di vetro, andrà rivestito il fondo con delle foglie di basilico lavate e asciugate per bene. Dopo averle chiuse con gli appositi tappi, potete procedere alla sterilizzazione: riempite una pentola di canovacci puliti e inserite le bottiglie tra questi. Riempite d’acqua e portate a ebollizione per una trentina di minuti. Trascorso tale intervallo di tempo spegnete il fuoco e lasciate raffreddare le bottiglie all’interno dell’acqua di cottura anche per tre o quattro giorni. Alla fine estraete le conserve, asciugatele bene e riponetele in un luogo buio, fresco ed asciutto. La passata è pronta e in questo modo potrà essere conservata anche per un anno intero.

 

 

 

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Modica svetta nei luoghi del cuore del FAI

Articolo di Patrizia Rubino

Tra i comuni siciliani che più rappresentano il fasto e l’imponenza dell’architettura tardo barocca rientra sicuramente anche Modica, che proprio in virtù di tali numerose testimonianze artistiche, nel 2002 è stata dichiarata dall’UNESCO Patrimonio Universale dell’Umanità. Ma la cittadina della provincia ragusana, nota anche per aver dato i natali al poeta Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la Letteratura nel 1959 e per la produzione di uno straordinario cioccolato, è recentemente balzata alla ribalta della cronaca nazionale per aver ottenuto due importanti piazzamenti, unico caso italiano, nella classifica del censimento nazionale indetto dal FAI su “I Luoghi del Cuore” da salvare, tutelare e valorizzare. Si è aggiudicata, infatti, il 4° posto, con ben 40.521 voti, con “La via delle Collegiate”. Un percorso virtuale che unisce le tre principali chiese della città.

Il Duomo di San Giorgio, considerato uno dei monumenti simboli del barocco siciliano, la cui maestosa facciata si staglia su una suggestiva scalinata di 260 gradini. La chiesa di Santa Maria di Betlem che esprime un’armoniosa miscellanea di stili: dal gotico, al rinascimentale, al barocco e conserva al suo interno uno dei presepi più grandi del Val di Noto. La chiesa di San Pietro, la matrice della parte bassa della città, anch’essa preceduta da una scenografica scalinata ai cui lati sono poste le statue dei 12 apostoli e con all’interno un vero trionfo di affreschi, sculture e decori. «Si tratta di un progetto culturale di ampio respiro – spiega Valerio Petralia, referente del comitato “La via delle Collegiate” – che è stato preceduto da una lunga fase di studio della documentazione e degli archivi storici delle chiese coinvolte. Il tutto nasce dalla volontà di recuperare e valorizzare quelle che sono state le nostre radici, le nostre tradizioni al fine di renderle fruibili e spendibili sicuramente in un’ottica turistica, ma principalmente per le nuove generazioni, future custodi della nostra identità. Perché queste chiese oltre a rappresentare i luoghi della memoria religiosa della nostra città nel corso dei secoli, sono innanzitutto il frutto della nostra evoluzione civile e culturale. E proprio i ragazzi delle scuole – aggiunge Petralia – con la loro massiccia partecipazione all’iniziativa hanno dimostrato di voler sostenere la valorizzazione del loro territorio».

L’altro importante risultato è rappresentato dal 6° posto, con 30.226 voti, ottenuto dalla chiesetta rupestre di San Nicolò Inferiore, grazie alla mobilitazione dall’associazione Via, che la gestisce da 2016. Si tratta probabilmente della chiesa più antica della città e fu scoperta per caso nel 1987. Le sue origini risalirebbero, infatti, intorno all’XI secolo. Al suo interno sono presenti tre diversi cicli pittorici, il più antico dei quali risale all’epoca bizantina.

Grazie a questi importanti risultati potranno essere presentati progetti di recupero e valorizzazione del grande patrimonio artistico e culturale rappresentato da queste chiese, il cui finanziamento avverrà attraverso i fondi erogati dal FAI. Tra gli interventi previsti c’è il consolidamento architettonico delle strutture, il restauro dei dipinti e degli altari e la realizzazione di aree espositive degli oggetti sacri che rappresentano dei veri e propri tesori da conservare ed ammirare.
«Siamo molto soddisfatti per la straordinaria ribalta ottenuta dalla nostra città con il censimento FAI – dichiara l’assessore alla Cultura del Comune di Modica, Maria Monisteri – uno straordinario successo dovuto soprattutto all’impegno di comitati informali che in sinergia con l’amministrazione comunale sono riusciti a coinvolgere singoli cittadini, associazioni laiche e religiose, turisti, operatori commerciali e soprattutto le scuole di tutta la provincia ragusana. Continueremo a lavorare per fare tesoro di questo importante riconoscimento affinché possa anche contribuire alla ripresa economica della nostra città con l’avvio della prossima stagione turistica».

 

 

 

 

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Apre a Modica il b&b etico la Casa di Toti: un modello da esaltare e imitare

Articolo di Patrizia Rubino   Foto Toti di Silvia Munoz

Questa è la storia di un sogno che si realizza grazie alla forza e alla caparbietà di una madre, Muni Sigona, fondatrice dell’associazione “La casa Di Toti” – che abbiamo già avuto il piacere di ospitare tra le pagine della nostra rivista – da tempo impegnata per offrire al proprio figlio Toti, affetto da neurodiversità, così come ad altri ragazzi speciali, la speranza concreta di un futuro possibile ed in autonomia. Dopo quasi sei anni, infatti, dall’avvio del progetto, il B&B Etico “La Casa di Toti”, situato nelle campagne di Modica, in provincia di Ragusa, sarà aperto ai turisti con la completa gestione dei servizi alla clientela, affidata a Toti e ad altri ragazzi disabili assistiti da tutor.

Il B&B è un’antica dimora della famiglia Sigona, già casa-vacanze, immersa nel verde tra ulivi e carrubi, con una splendida piscina e due dependance destinate ai turisti ospiti, oggi impreziosito dalla nuovissima “Casa” che ospiterà i ragazzi disabili. «Attualmente – spiega Muni Sigona – La Casa di Toti rappresenta una realtà unica nel suo genere in Italia, nel senso che ci sono altri alberghi etici gestiti da persone con disabilità, ma non prevedono la permanenza di questo “personale speciale” oltre il loro turno di lavoro. I nostri ragazzi, invece, lavoreranno e vivranno qui dal lunedì al venerdì, è previsto il rientro a casa solo nel fine settimana. Il punto centrale del progetto – aggiunge – sta soprattutto nel far sperimentare loro, autonomia e senso d’indipendenza, rispetto alle loro famiglie anche in prospettiva di quel “Dopo di noi” che tanto assilla e preoccupa noi genitori di ragazzi con disabilità».

La nuova struttura, priva di barriere architettoniche, ha una grande hall che si apre su un salone ampio e luminoso riservato all’accoglienza degli ospiti, una bella cucina, il refettorio e le camere destinate ai ragazzi e ai tutor. Essa è stata realizzata grazie ad un’incredibile macchina della solidarietà, avviata dall’instancabile Muni e dal suo team, a partire dalla raccolta fondi per la sua costruzione, anche gli arredi, gli infissi, la copertura in vetro del tetto, i sanitari, la climatizzazione e persino il giardino circostante, sono il frutto della grande disponibilità di aziende locali, nazionali ed internazionali che hanno sposato con grande generosità ed entusiasmo questo progetto.

Attualmente i ragazzi che vivranno e lavoreranno nella “Casa di Toti”, sono quattro ma si potrà arrivare ad un massimo di sette. L’individuazione è avvenuta attraverso una selezione curata dall’equipe dello studio psicopedagogico Parentage di Catania che li ha successivamente preparati, lavorando molto sulla gestione delle loro autonomie personali e domestiche e poi, nello specifico, sulle competenze relative all’hotellerie e all’accoglienza degli ospiti. Sempre in vista della straordinaria avventura che li attendeva, i ragazzi hanno, inoltre, partecipato ad una serie di tirocini formativi, realizzati in collaborazione con aziende locali della ristorazione e ricettività.

«Ma La Casa di Toti, non sarà solo un albergo etico – tiene a precisare Muni Sigona – abbiamo in mente tante idee per coinvolgere ragazzi con disabilità e le loro famiglie, attraverso tutta una serie di attività tese a sviluppare potenzialità, competenze ed inclusione vera». Recentemente, infatti, l’associazione “La Casa di Toti”, ha vinto il bando “EduCare”, finanziato dal Dipartimento per le Politiche della Famiglia, con il progetto “Abilitiamo la Casa di Toti”. Cinquanta ragazzi tra disabili, loro sorelle, fratelli ed amici, della provincia di Ragusa, in età tra i 15 e i 25 anni, potranno partecipare ai laboratori, che si terranno nella Casa di Toti, riguardanti cucina creativa, grafica e pittura su tessuti, hotellerie e servizio ai tavoli, fotografia, musica e attività nell’orto. «Sarà bellissimo – conclude soddisfatta Muni Sigona – vedere questo brulicare di attività che sono certa appassioneranno questi straordinari ragazzi e renderanno felici anche le loro famiglie».

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Tranquilli, ci pensa l’olio Iperico

Articolo di Alessia Giaquinta   Foto di Laura Vinci

Conosciuta come “scacciadiavoli” o “Erba di San Giovanni”, l’iperico è una pianta officinale potentissima, addirittura “miracolosa”, come sostengono alcuni. Il motivo dei nomi che l’accompagnano rivela in qualche modo il legame esoterico-magico-religioso che le viene attribuito. Il nome iperico deriva dal greco, ossia “sopra le immagini”, perché si riteneva che questo fiore – dal colore giallo ma capace di secernere un inteso liquido rosso – posto sopra l’immagine della Sacra Famiglia, fosse capace di allontanare i demoni e proteggere la casa.

Ma è anche nominata “Erba di San Giovanni”. Perché? I motivi sono molteplici. Si parte dal fatto che la fioritura dell’iperico avviene nel mese di giugno, in procinto del solstizio d’estate, quando si celebra anche la nascita di San Giovanni. Secondo questa visione, il 24 giugno l’iperico, in occasione della sua festa, assume i poteri curativi che lo caratterizzano. Ma un altro motivo lo lega al Santo: la sostanza rossa contenuta nel pistillo del fiore, richiama il sangue versato da San Giovanni Battista durante il suo martirio, commemorato il 29 agosto, periodo ultimo per la raccolta del fiore.

In epoca medievale, durante le feste in onore a San Giovanni, era consuetudine danzare con in capo una ghirlanda di fiori di iperico. Al termine della festa essa veniva lanciata sui tetti delle case o tra i rovi di un falò come rito propiziatorio per i raccolti, la protezione del bestiame e quella delle abitazioni.
Nell’armentario dell’esorcista non poteva mancare l’olio prodotto dall’iperico e, al tempo delle crociate, esso era usato nel trattamento delle ferite dei cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme.

Oltre ogni credenza e superstizione, la ricerca scientifica ha appurato le proprietà di questa pianta che cresce nelle terre incolte. Nel territorio ibleo, ad esempio, la si può trovare dal mare alla montagna, dai campi e ai cigli delle strade.

Ma parliamo dei benefici. L’iperico, grazie alle sue proprietà antidepressive e ansiolitiche è in grado di agire sul sistema nervoso al pari degli psicofarmaci, senza presentare controindicazioni. Grazie all’ipericina ha proprietà balsamiche, è un ottimo espettorante e antivirale. Perfetto contro tosse, raffreddore e catarro ed inoltre è utile a fortificare le difese immunitarie. Per godere di questi benefici bisogna realizzare un decotto di iperico o delle tisane. È severamente sconsigliato il metodo “fai da te”, in questo caso è necessario affidarsi a naturopati o rivolgersi ad un’erboristeria.

Tra le molteplici proprietà di questa pianta ci sono quelle legate alla cura della pelle. L’oleolito che si ricava dall’infuso macerato dell’iperico è un vero toccasana per contusioni e dolori articolari, cura le ustioni ed è un perfetto cicatrizzante. Inoltre è ideale per ammorbidire ed idratare la pelle che, immediatamente, appare setosa e piacevole al tatto.
Nella stagione calda, inoltre, è spesso utilizzato per lenire le scottature (attenzione, però a non esporsi al sole dopo averlo cosparso nel corpo) e per alleviare i fastidi conseguenti alle punture d’insetto.
Insomma… una vera panacea!

CURIOSITÀ

  • Alcuni naturopati utilizzano l’oleolito di iperico per trattamenti e massaggi.
  • Anticamente le donne portavano un rametto di iperico con sé, credendo potesse proteggerle da ogni violenza.
  • Si ritiene che il potere di questa pianta venga infuso grazie alla rugiada della notte di San Giovanni. I fiori raccolti prima del 24 giugno non avrebbero, infatti, le medesime proprietà benefiche!

 

COME PREPARARE L’OLEOLITO

Occorrente:
200 gr di fiori di iperico,
600 ml di olio (extravergine d’oliva / olio di mandorla),

Procedimento:
Dopo aver raccolto (possibilmente in luoghi non inquinati) e pulito i fiori di iperico, farli macerare in un barattolo insieme all’olio. Una volta al giorno agitare il contenitore, per un mese. A conclusione filtrare, spremendo il più possibile la pianta, con un colino. Conservare l’oleolito in boccettine, in luoghi asciutti e al buio.

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Andrea Lo Cicero, la delicatezza dell’ex pilone tra cucina, zafferano e filosofia

Articolo di Patrizia Rubino

Una carriera straordinaria nel rugby, con ben 103 presenze in nazionale, Andrea Lo Cicero, catanese, 45 anni, detto “Il Barone” per le sue origini nobiliari, nel 2013 lascia l’attività sportiva e decide d’intraprendere un nuovo percorso, riuscendo a fare della sua passione per la cucina e per la terra, non soltanto la sua nuova dimensione professionale ma anche una vera e propria filosofia di vita. E in questo racconto vedremo che la parola “filosofia” avrà il suo perché. Carisma e simpatia gli consentono di diventare un personaggio televisivo con il reality Giardini da Incubo, Celebrity Masterchef e La Prova del Cuoco, condotto da Elisa Isoardi. Il suo rapporto con il piccolo schermo continua a rappresentare un aspetto importante della sua attività professionale, attualmente è presente su Sky con L’isola del Barone e l’Erba del Barone, ma è la sua tenuta agricola, situata nella provincia di Viterbo, in cui vive con la moglie e il loro bimbo di due anni, il luogo dal quale trae energie ed ispirazioni.

Hai viaggiato per tutto il mondo e vissuto in grandi città, come nasce la scelta di vivere nella campagna laziale?
«Da una parte si tratta di una scelta logistica, sono molto vicino a Roma e raggiungo facilmente Milano, i luoghi in cui registro i programmi televisivi, ma è principalmente il mio fortissimo amore per la terra e la riconoscenza verso i suoi straordinari prodotti, che mi ha spinto a scegliere la campagna, qui la vita è sana e rigenerante. Nella mia azienda “I Scecchi” produco principalmente zafferano, mi occupo dell’orto ed allevo per l’appunto asini. Sono animali straordinari dai quali si può imparare tantissimo. Insieme a mia sorella, che è psicoterapeuta, diamo la possibilità a bambini con disabilità lieve di instaurare un rapporto con queste meravigliose creature. Si tratta di una relazione graduale che porta il bambino a prendersi cura dell’asino e quest’ultimo a fidarsi delle sue attenzioni. I benefici sono assolutamente vicendevoli».

L’impegno nel sociale è sempre stato presente nella tua vita.
«Da giovane a Catania sono stato volontario della Croce Rossa. Erano gli anni Novanta e si registravano frequentemente omicidi ed episodi di gravissima violenza, per mano dei clan mafiosi. Spesso erano coinvolti giovani che magari conoscevo di vista, ma che purtroppo avevano fatto scelte di vita devianti. Ho sempre pensato che lo sport, specie per i ragazzi, possa svolgere un’importante azione educativa tesa al rispetto delle regole. Come ambasciatore Unicef, ruolo che ricopro da circa dieci anni, cerco di promuovere il più possibile questo importante messaggio».

A proposito di Catania, com’è il tuo rapporto con la città e che mi dici della “Candelora d’oro”, massima onorificenza catanese, promessa e non assegnata?
«Il rapporto è viscerale, nel senso che ciò che sono, le mie passioni, il mio amore per la cucina e per la terra, sono il frutto della mia “catanesità”. Per quanto riguarda il premio, premetto la mia grande devozione a Sant’Agata e questo riconoscimento avrebbe significato per me oltre che un grande onore, un apprezzamento per quello che come catanese ho rappresentato con la mia carriera. Pur essendo stato ampiamente promesso, alla fine il premio non è arrivato».

Torniamo alla cucina. Sostieni di non essere uno chef professionista, ma a guardare i tuoi programmi tv non sembrerebbe.
«Ho sempre amato cucinare per passione; il cibo, la convivialità per me sono il sale della vita. La curiosità e la voglia d’imparare mi hanno spinto poi a perfezionare le mie abilità culinarie. Con le lezioni di Igles Corelli, chef pentastellato, scopro sempre più che la cucina è creatività, tecnica ma anche evoluzione».

Concludiamo la nostra chiacchierata parlando di filosofia.
«Nel 2019 ho voluto riprendere gli studi – da ragazzo avevo tentato con Medicina – iscrivendomi a Lettere e Filosofia. All’inizio non è stato semplice, però pian piano sono entrato nel meccanismo e la mia mente ed i miei pensieri ne stanno giovando tantissimo».

 

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Massimo Tringali, Executive Chef all’Armani di Parigi

Articolo di Alessia Giaquinta

È figlio della Sicilia Massimo Tringali, l’executive chef – quattro volte insignito della prestigiosa Stella Michelin – del ristorante “Armani” di Parigi.

È partito da Augusta nel 2001 per approdare a Parigi, passando anche per la Corsica. Le numerose esperienze davanti ai fornelli lo forgiano e danno identità ai suoi piatti dove tradizione e modernità si incontrano in un’ esplosione di sapori capaci di attivare i ricordi, di raccontare i luoghi, di innescare emozioni. Nel 2015 conosce quello che lui definisce “uno degli incontri più importanti della mia vita, un vero ambasciatore della gastronomia italiana in Francia, capace di farmi innamorare ancor di più del mio mestiere indicandomi la via da seguire”: Massimo Mori. Così intraprende l’avventura “Armani”, in uno dei ristoranti italiani più lussuosi della città francese.
Ad accompagnarlo, sin dall’inizio di questa esperienza sono altri due siciliani: Claudio Oliva, il mio Sous Chef di Solarino e Antonino Di Stefano il mio Chef Pasticcere di Avola.

Per il quarto anno consecutivo “Stella Michelin”…
«Confermare per il quarto anno consecutivo la nostra stella Michelin, in un anno delicato come quello che stiamo vivendo, assume un significato ancora più importante per noi. Il nostro in fondo è un lavoro di artigianato, un mestiere antico dove ci si sporca le mani. Ogni traguardo ha sempre un sapore speciale. Sono la stessa persona che ero nel febbraio del 2018, quando appresi la notizia che la Michelin avrebbe premiato il nostro lavoro con la prestigiosa Etoile. Siamo stati l’unica brigata italiana di Francia a ricevere la stella nel 2018, ne siamo orgogliosi. Credo che questo sia l’insegnamento che posso dare ai miei ragazzi: rimanere se stessi senza scalfire la passione che ci permette di affrontare un lavoro duro come quello della ristorazione».

Quali sono gli ingredienti base della tua cucina?
«Prediligiamo una cucina sana. Il nostro spirito gastronomico rispetta le materie prime che utilizziamo e soprattutto le eccellenze italiane che il nostro meraviglioso Paese ci offre. Riceviamo prodotti da tutta l’Italia. L’ olio extra vergine d’oliva è sicuramente uno degli ingredienti più importanti della nostra cucina. L’anima di ogni ricetta che proponiamo».

Parliamo della Francia. Come ti trovi?
«Lavoro in Francia da più di dieci anni. Ho avuto esperienze in Corsica, isola che amo particolarmente. Fare cucina a Parigi è molto stimolante. Questa città è un po’ l’ ombelico gastronomico mondiale. Far conoscere la nostra storia attraverso la cucina è una grande responsabilità. Rimaniamo fedeli alle nostre radici».

Da Augusta a Parigi. Quanto ti manca la tua terra?
«La Sicilia ha un magnetismo particolare nei miei confronti. A volte ho come l’impressione che non mi manchi davvero, ma ogni qualvolta scendo dalle scalette dell’aereo e poggio i piedi per terra ho come l’impressione che una parte di me si risvegli da uno strano letargo».

Come fai “vivere” la Sicilia attraverso i tuoi piatti?
«Proponiamo piatti di tutte le regioni d’Italia, ma com’ è normale che sia alcuni ingredienti appartengono al mio DNA più di altri. L’ origano, i capperi di Salina, il gambero rosso di Mazara, l’olio extra vergine di oliva Settembrino, il fior di sale di Trapani e così tutte le altre eccellenze che la nostra splendida isola ci regala».

Che rapporto hanno i francesi con la cucina italiana?
«I francesi amano la cucina italiana. Cerco di raccontare ai nostri clienti gli ingredienti che utilizziamo facendo nomi e cognomi delle persone che con fatica e dedizione portano avanti il Made in Italy. Un filo conduttore che passa dalle mani degli agricoltori, dei produttori di olio, di vino e di tutte le specialità italiane fino ad arrivare sui nostri fornelli. Il nostro lavoro è quello di accompagnare con rispetto queste materie prime fino ai nostri clienti».

 

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Il Seltz: sorsi di tradizione nei chioschi siciliani. Le “vecchie” bevande dissetanti

Articolo di Omar Gelsomino   Foto di Samuel Tasca

Ormai è una tradizione che si tramanda da secoli, nonostante sia difficile pensarlo. Ebbene sì, quando la calura estiva raggiunge il suo apice, sia di mattina che di sera, la prima cosa che si fa è quella di dissetarsi e reintegrare i liquidi e i minerali persi con la sudorazione. Cosa c’è di meglio che entrare in un chiosco, apparso all’improvviso proprio come il miraggio di un’ oasi nel deserto, per bere una bevanda fresca e dissetante?

Il protagonista indiscusso per lenire la nostra arsura è il Seltz con limone e sale, il cui nome deriva da un comune tedesco, Selters, in cui si trovava una sorgente di acqua ricca di anidride carbonica, prodotto base per un ottimo Seltz, ma solo nel 1979 Joseph Priestley scoprì il processo per ottenere l’acqua gassata. Un’usanza antica per i palermitani è l’acqua e zammù (il sambuco importato dagli Arabi), risalente all’800 quando l’acquaiolo girando per le strade con il suo banchetto e un piccolo contenitore con l’acqua fredda e una bottiglietta d’anice (verde, stellato e pepato) e della menta gridava: “acqua frisca, ca’ è biedda agghiaggiata… e s’unnè frisca, v’arrifirsca” ovvero “acqua fresca che è ben gelata, e se non è fresca vi rinfresca”, così l’assetato accorreva scavalcando la fila dicendo “acqua e zammù… primma io’ e duoppu tu! ”. Bevanda che si offriva anche a casa accompagnandola con un chicco di caffè.

Nei secoli quella che era un’attività ambulante si è trasformata in postazione fissa, nei chioschi siciliani, soprattutto a Palermo e a Catania, collocati agli angoli delle strade o nei punti più nevralgici, dalle forme quadrangolari, esagonali o ottogonali, altri in stile liberty oppure ospitati all’interno di locali. Quando vi fermerete al chiosco il vostro sguardo sarà catturato dalla colorazione degli agrumi, della frutta e degli sciroppi naturali resa ancora più vivace dalla luce solare o da quella artificiale dei neon e poi non avrete altro che l’imbarazzo della scelta.

Il Seltz non è altro che acqua frizzante fredda, spinata da appositi rubinetti, liberando l’effervescenza delle bollicine, sarà poi il chioscaro o cioscaro ad assecondare le vostre richieste, aggiungendo il limone, altro elemento importante, tagliato a metà e spremuto nel bicchiere con lo spremiagrumi; poi è la volta degli sciroppi nella loro esplosione di colori variopinti ed ammalianti: dal verde brillante all’arancio fluorescente dei mandarini, dal marrone del tamarindo al bruno dello sciampagnino, dal vermiglio delle amarene al giallo dell’ananas e tropical, dal verde smeraldo della classica menta, al bianco del latte di mandorla e all’anice puro. Sarà poi il chioscaro o cioscaro con le sue alchimie a miscelarli, secondo quelle che sono ormai delle vere e proprie tradizioni, rendendole attuali in base alle varie preferenze, a volte aggiungendo anche il sale, e realizzando così la vostra bevanda: dal classico Seltz, limone e sale, allo Speciale con acqua, anice e limone, dal Completo a cui viene aggiunta l’orzata al Tamarindo al limone e bicarbonato; il Mandarino (classico, arancio o mandarinetto) al limone per arrivare ai vari misti (dolce, amaro o aspro) e lì sarà il chioscaro o cioscaro, dimenandosi, a mostrare tutta la sua conoscenza, maestria e fantasia creando qualcosa di stucchevole. Il chiosco rappresenta la tradizione, un rituale, quasi una poesia. La fermata ad un chiosco è carica di significati: vuol dire dissetarsi, scoprire le abitudini di una città e dei suoi abitanti, immergersi nella filosofia di vita, in storie e ricordi, socializzare e rapportarsi con gli altri.


Nulla a che vedere con gli odierni cocktail sapientemente shakerati da abili bartender, i prestigiosi vini o birre artigianali perché ogni sorso riporta alla mente i profumi e i sapori di un territorio che ogni bevanda custodisce, facendo affiorare nei meno giovani i ricordi di un tempo remoto. Anche le bevande siciliane rappresentano un piccolo tesoro da conoscere, soprattutto per i turisti durante un viaggio in Sicilia.

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L’inchino al melone igp di Pachino

Articolo di Alessia Giaquinta   Foto di Samuel Tasca

Fresco, gustoso e dolcissimo.
Stiamo parlando di uno dei frutti più consumati nella stagione estiva: il melone, nelle sue numerose varietà.

Quello di Pachino, però, è una vera prelibatezza, oltre ad essere un’eccellenza del territorio siciliano. Insignito del marchio IGP con decreto del 2007, dopo un iter portato avanti dall’Associazione per la Tutela dei Prodotti Tipici di Pachino (ATPTP), il melone di Pachino è uno dei prodotti ortofrutticoli più commercializzati nei mercati regionali e nazionali.

Apprezzato per la sua particolare dolcezza e succosità, è ottimo per realizzare antipasti e dessert ma anche per frullati e bevande. I puritani del gusto, però, affermeranno che è solo attraverso la degustazione al naturale del frutto che si possono scoprire le essenze dello stesso. Allora, lasciamoci guidare dai sensi…

A vista, il melone di Pachino si presenta di colore arancio-salmone ed ha forma ovale o rotonda. Il tatto può imbattersi in una buccia liscia, retata oppure retata tipo “long life”.
Ma è solo dopo aver udito il “crack” dell’apertura che si può sentire la fragranza aromatica di questo frutto.

Amato da grandi e piccini, il melone di Pachino è dissetante, rinfrescante e con pochissime calorie!
Considerando che è composto principalmente da acqua ricca di sali, si classifica tra gli alimenti alleati della linea. Oltre ad essere ipocalorico, è ricco di antiossidanti, minerali e vitamine. Inoltre, il betacarotene limita i danni cellulari e favorisce la produzione di melanina (e dunque l’abbronzatura) contrastando l’invecchiamento della pelle.

La raccolta del melone di Pachino avviene nel periodo compreso tra maggio e luglio. Il frutto gode delle proprietà e delle caratteristiche sopra elencate grazie ad alcuni fattori indispensabili: la terra sabbiosa oppure calcarea e basaltica, un clima caldo e un’elevata esposizione alla luce. Viene coltivato in zone protette: sotto tunnel (arieggiati e con orientamento nord-sud per avere la massima esposizione solare) o in serra.
Il peso medio del melone si aggira tra 1 kg e 1,5 kg. Preferibilmente deve essere consumato dopo l’acquisto per gustarne appieno la freschezza. Una volta conservato in frigo va protetto in un contenitore perché facilmente assorbe gli odori degli altri cibi.

Che dire allora?
… Facciamo un inchino, al gustosissimo Melone IGP di Pachino!